Il degrado sociale nella vicenda del Ferrhotel di Piacenza

Solidarietà: Rapporto di comunanza tra i membri di una collettività pronti a collaborare tra loro e ad assistersi a vicenda: s. sociale; condivisione di pareri, idee, ansie, paure, dolori ecc.: esprimere la propria s. ai parenti delle vittime.

E’ una bella parola, la solidarietà. Ce ne laviamo spesso la bocca, inviamo sms al 48*** oppure raccogliamo cibo. Ma questo accade solo quando la persona o la comunità a cui si deve prestare solidarietà rimane a casa sua. Il punto di vista cambia moltissimo quando il soggetto che dovrebbe ricevere solidarietà si sposta e arriva nella nostra comunità, come nel caso dei 72 rifugiati politici del Ferrhotel di Piacenza. Una situazione circoscritta, ma che mostra un nervo scoperto della comunità, non solo quella Piacentina.

Riassumendo la vicenda: con lo scoppio della primavera araba nel 2011, ai profughi provenienti dai paesi in rivolta è stata concesso il Diritto di Asilo Politico, ovvero quell’antica istituzione che riconosce ad una persona perseguitata nel suo paese d’origine il diritto di essere protetta da un’altra autorità sovrana o un paese straniero, da quasi tutti i paesi della comunità internazionale. Il diritto d’asilo non è automatico: i profughi ne fanno richiesta e vengono o accettati o respinti a seconda della possibilità del Comune.

Tra i doveri dell’ospitante che accetta il profugo, il dovere di non respingimento verso Paesi che potrebbero minacciare i diritti inviolabili dell’uomo e del cittadino, concedere il diritto alla protezione legale, all’assistenza sociale e sanitaria, al lavoro e all’istruzione e tutti quell’insieme di diritti sociali, economici e civili. Il rifugiato dalla sua, si impegna al rispetto delle leggi e dei regolamenti del paese ospitante.

Piacenza, a monte, non ha rispettato i suoi doveri. Per i 72 profughi solo piccoli lavoretti per i più fortunati o un buono giornaliero da 2,50€ spendibile al supermercato, insieme ai 3 pasti forniti dall’ostello della stazione (il Ferrhotel, appunto) e una camera. A distanza di due anni si ritrovano nelle stesse condizioni di quando sono arrivati: senza un lavoro (e quindi senza casa), senza corsi per l’inserimento nella comunità ospitante, senza niente. L’unico baluardo di civiltà si ha nel Sig. Loranzi, titolare del Ferrhotel, che in un intervista a “La Batusa” racconta l’impegno e la prontezza con cui ha accolto questa sfida di solidarietà.

Il colpo di grazia arriva il 31/12/2012, quando arbitrariamente e senza verificare in alcun modo le condizioni dei paesi d’origine, il Governo Monti chiude lo stato d’emergenza e fa decadere il diritto d’asilo nazionale, delegando gli enti locali, già dissestati e senza risorse, al mantenimento dei profughi, che negano l’aiuto semplicemente per mancanza di risorse. A gennaio iniziano le prime proteste dei profughi, guidati dal loro portavoce, il Sig. Abdulei, sotto la Prefettura e per le vie del centro storico: Piacenza scopre per la prima volta di ospitare dei profughi e non “un gruppo di immigrati a cui paghiamo vitto ed alloggio”.

Il problema inizia ad affacciarsi sui quotidiani locali quando ormai l’emergenza è scoppiata, con la notizia delle prime manifestazioni e dei tavoli della procura. Può essere questo che ha annullato la solidarietà piacentina, unita ad un certo razzismo endemico – memoria di una Lega Nord ormai lontana – oppure la contemporaneità dell’emergenza profughi unita alla crisi economica imperante, non ci è dato saperlo. L’unica cosa di palpabile è il cambio di atteggiamento del Piacentino, che da organizzatore di banchetti per il terremoto o lo tsunami o l’eruzione in qualsivoglia parte del mondo, diventa una macchina stendi-indifferenza, capace di cacciare slogan antiquati e aberranti quali “prima gli italiani”, “menomale che se ne vanno”, “non possiamo farci carico di tutta l’africa”, etc.

Commenti che non si limitano ai frequentanti di vecchie bettole di periferia, ma che si rincorrono ciclicamente anche sulle varie pagine facebook e commenti sotto le notizie di PiacenzaSera – unica testata cittadina impegnata, insieme all’associazione Via Roma Città Aperta, a raccontare le storie dei profughi e dei loro problemi. Commenti che fanno riflettere, che fanno allarmare. Il profugo, persona che scappa da morte certa nel suo paese, viene visto come un nemico e non come una persona in condizioni peggiori alle nostre e quindi da aiutare. Verbalmente, è come se quotidianamente un piacentino picchiasse un barbone – l’ideologia è la stessa. Il fatto che la violenza non venga perpetrata fisicamente, non rende l’atto meno vigliacco o subdolo.

Quando porgi direttamente la domanda a qualcuno che manifesta apertamente il proprio razzismo verso questi profughi, ti vengono accampate le scuse più improbabili. “Sono dei delinquenti, c’è da avere paura a rientrare la sera in treno”. Eppure, stando al proprietario del Ferrhotel non ci sono mai stati problemi d’ordine, escludendo le manifestazioni per i propri diritti. “I nostri giovani sono a casa, perchè dovremmo far lavorare loro?” come se il problema fosse CHI LAVORA e non IL PERCHE’ NON SI PUO’ LAVORARE. Nella mentalità chiusa del piacentino è scoppiata una sommossa civile, fra poveri, che vede in chi sta peggio un nemico e non come un fratello o un alleato nel far valere la propria voce contro chi ci ha ridotti tutti così. “Una mia amica ha passato una mezzora che non se la dimenticherà più, anni fa”. Benissimo, anni fa non sono i profughi, che iniziarono ad arrivare nel 2011.

Una sequela di luoghi comuni, di balbettanti argomentazioni e deboli nazionalismi che, alla richiesta di argomentazioni, finiscono con l’aberrazione più grande, la frase “Ma tu da che parte stai?”. La guerra dei poveri, appunto, con i suoi due fronti immaginari, inconciliabili nelle menti grette del piacentino che prima combatteva con il terrone mangia-lavoro ed ora contro gli stranieri mangia-lavoro. Come se le fabbriche chiudessero per colpa degli stranieri, gli enti locali non avessero soldi perché li regalano tutti agli stranieri-sanguisughe-che non pagano tasse (? sic…) e il mondo andasse male perché esistono gli stranieri.

Una cantilena che giustifica l’indifferenza verso 72 vite, in una comunità che si professa cristiana ma che volta le spalle ai suoi fratelli Samuel, di appena 7 mesi, della sua mamma e del suo papà Adele ed Adam, di Abdulei, Dinislan, Sissoko e di tutti gli altri fantasmi del Ferrhotel. Tanto, ci laveremo la coscienza con due pacchi di pasta al prossimo terremoto.